80 anni fa (1932) moriva Errico Malatesta, l’anarchico rivoluzionario più temuto da tutti i governi e le questure del Regno.
Il giornalista e scrittore Vittorio Giacopini entra nella casa romana dove è esiliato Errico Malatesta, rivoluzionario di professione, anarchico per indole, ormai all’ultimo tramonto per l’anagrafe.
Entra nella stanza di un vegliardo la cui storia è stata scritta dalla prosa poliziotta delle questure italiane e dei servizi internazionali.
Il lumino di Errico è ormai quasi spento, ormai non c’è più niente da fare, il vegliardo non ha risorse né futuro, anche se insiste nel volerlo fare, e non aspettarlo. E racconta.
Malatesta, Ulisse dell’anarchia, ha attraversato le sirene dei miti (del progresso, della rivoluzione, della giustizia sociale, dell’uguaglianza). In Italia, ricercato, inseguito, pedinato, arrestato, processato, fuggito, inseguito, pedinato, ricercato…, camuffato da capotreno ferroviario si fa nebbia, appare e scompare, riappare nelle segnalazioni delle forze dell’ordine e svanisce. Lo seguono a Cadice, Londra, in Egitto, a NY, Buenos Aires, in Patagonia…
Fino a lì, al tramonto romano: il vecchio giramondo, l’eversore, il mitico ‘Lenin d’Italia’ (tuttavia scrisse: ‘Lenin fu un tiranno, fu lo strangolatore della rivoluzione russa, e noi che non potemmo amarlo vivo, non possiamo piangerlo morto. Lenin è morto. Viva la libertà!’) ora è un vecchietto che non mette piede fuori di casa e non riceve nessuno, non ha visite (non può). Scrive: “No, io non sento bisogno di stare tranquillo; soffro, invece, perché sono obbligato a restar tranquillo”.
Il suo selvaggio contromondo immaginario è ancora lì, offuscato dall’età, la luce che si spegne lentamente, in solitudine. Ma lui lo vede, ancora.
I suoi occhi di brace fondi e dardeggianti hanno visto e ipnotizzato mezzo mondo, poi il suo gesticolare veloce, il tono ispirato del capo rivoluzionario, del sovversivo lo hanno sollevato su seggiole, palchetti, trespoli improvvisati e lì giù a mitraglia, a spiegare che la storia si improvvisa, che se non ora, quando? che l’Italia unita dal segno del denaro e delle tonache era da ripensare, che la fame non passava coi proiettili di Bava Beccaris, che la violenza era giusta contro gli oppressori, solo per la difesa “ma niente di più o peggio”.
Rivolte, tumulti, proteste e scioperi, dalla fine della Belle Epoque al biennio rosso, dalla battaglia anticomunista alla Grande Guerra, a Mussolini, un lungo carnet di insurrezioni, fughe, attentati, nel nome della libertà.
Anche Salvemini la vedeva così, senza imbarazzi:
Malatesta era un rivoluzionario assolutamente onesto, e il suo lungo,
attivo e coraggioso passato, il suo disinteresse, il suo fascino personale
e la sua giovanile energia gli conferivano un prestigio immenso.
Uomini e donne accorrevano a frotte ad ascoltarlo
con la speranza di trovare in lui il salvatore, il liberatore,
il leader, un nuovo Garibaldi, il Lenin italiano.
Ma egli non era Lenin, comunista,
era Malatesta, anarchico
Giacopini conduce un’”intervista” inedita e intensa, dando vita a una docu-fiction senza cedere alla creazione di un ‘santino’ (la qual cosa ne avrebbe senz’altro comportato il defenestramento da parte del vecchio rivoluzionario!).