Miche', l'isolamento e il futuro «Se esco mi chiudo in convento»
Da Mimina sua, no, non ci tornerebbe manco morto. «Semmai esco di qui dentro, voglio chiudermi in convento», mormora Miche', isolato per sicurezza nell'infermeria del carcere di Taranto. Parla solo coi cappellani, padre Francesco e padre Saverio, e pare che la tutela maggiore consista nel tenerlo lontano da Sabrina, reclusa nel braccio femminile: «La figlia può mangiarselo in un boccone», sussurra uno dei vecchi sbirri che stanno svelando pian piano la trama di questo pasticciaccio.
Mostro, orco, quasi orco, assassino a mezzo servizio, becchino depravato e profanatore di cadaveri, anzi no, forse no, forse capro espiatorio, forse padre devoto e disposto a tutto, forse agnello sacrificale della devastata famiglia Misseri: chiunque sia davvero, questo contadino dalla faccia stuprata dal sole nella quale psicologi e criminologi hanno sgomitato ad ogni talk show per trovare le stimmate del demonio, aveva sin dall'inizio un sicuro passaporto per la gogna.
Perché questa è la storia di un bambino che negli anni Cinquanta faceva lo schiavo nelle campagne di Manduria, uno che la scuola la vedeva sì e no quando ci passava davanti sul carretto del padrone cui l'aveva «affittato» il padre Cosimo ad appena sei anni, sobbalzando sulla strada della masseria dove si spaccava la schiena fino a notte. Questa è una di quelle storie che ci sfilerebbero sotto il naso senza sollevare neanche un pochino di polvere se, più di mezzo secolo dopo, il bambino non fosse diventato l'uomo che qualche settimanale racconta così durante la visita in carcere del medico legale Luigi Strada: «Tutto muscoli e nervi, occhi di ghiaccio, fotografato nella sua animale nudità...». Se insomma non fosse già senza appello Il Mostro (come da titolo di copertina) in tutta la sua irredimibile perversione.
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Questa è anche la storia di un mostro che non riesce a farsi rispettare, di un Belfagor che inciampa nel proprio mantello e fa una capriola da Pulcinella, lavando all'occorrenza i piatti alle donne di casa e dormendo su una sdraio come un clochard. È la storia di un padre sospettato di abusi in famiglia e del quale la figlia grande, Valentina, dice con un sorriso tenero e irriverente: «Beh, papà è sempre stato bravo nelle faccende manuali, ma ogni volta che deve usare il cervello, lasciamo perdere...». Di un marito che pure qualche segno precedente di brutalità dovrebbe averlo dato, e di cui la moglie aveva tanta paura da parlarne così: «Certe volte lo chiamavo per fargli fare un servizio, e a quello gli entrava da un orecchio e gli usciva dall'altro, lo richiamavo, e niente. Allora strillavo: uèh, Micheee'! E alla fine si girava e mi stava a sentire!». Dipendeva naturalmente da un problema di posizione più che di cattiva volontà, perché Miche' ha un orecchio matto, il destro, messo fuori uso da un ceffone del padrone della masseria dove sgobbava da piccolo. Dopo un anno di quel trattamento, il piccolo Miche' aveva deciso di filarsela e sulla via della fuga aveva incontrato il carretto del padre: adesso papà mi salva e mi porta a casa, aveva pensato. Il padre l'aveva riportato dal padrone.
«Con quello che ha passato, non mi meraviglierei che avessero pure abusato di lui in qualche campagna quando era piccolo», dice Valentina, ma lo dice soprattutto perché è una ragazza saggia e sa che un bambino abusato può diventare un adulto che abusa, sicché l'eventuale violenza patita allora diventerebbe per lui una mezza prova a carico, una conferma che Miche' può davvero essere diventato un orco, può davvero aver molestato Sarah, può davvero averla uccisa perché lei minacciava di dirlo a tutti. In altre parole, gli abusi sul bambino Miche' sarebbero la pietra al collo dell'adulto Miche' ma, soprattutto, sarebbero un salvacondotto per Sabrina, che dalla cella continua a proclamarsi innocente e a maledire il padre, il «paparino» che niente le negava e che adesso la sta abbandonando, spinto dalle prove che i carabinieri gli mettono sotto il naso e da un avvocato d'ufficio col piede fisso sulla retromarcia: «Mio padre è pazzo e vuole incastrarmi».
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Nella casa di via Deledda, ultima tappa della vita di Sarah, forse Mimina ha deciso in un baleno da che parte stare. Forse l'ha deciso all'inizio, addirittura con Miche', in una specie di consiglio di famiglia drammatico ed emergenziale: sacrificarsi per Sabrina, per uno che s'è sacrificato da quando è stato capace di reggersi sulle gambe, potrebbe essere stato in qualche modo naturale, «Miche', ti tocca». Ora che Miche' sta crollando e non riesce più a tenere fuori la figlia dalla scena del delitto, Cosima l'ha scomunicato, l'ha messo al bando dalla liturgia familiare. Ancora ieri lei e Valentina sono arrivate fino a Taranto, sono entrate in carcere, hanno lasciato un bigliettino e qualche maglione per Sabrina. Niente per lui, che stava pochi metri oltre il muro divisorio delle sezioni. Si capisce, è un mostro. O forse non è abbastanza mostro da meritare rispetto, chissà.
Il rispetto in fondo è come il coraggio, roba che uno da solo non riesce a darsela. In questa storia matriarcale, piena di donne preponderanti e di uomini abbrutiti e sperduti sullo sfondo, l'unico ruolo possibile è quello del colpevole per un povero cristo che faticava dalle tre del mattino alle dieci di sera, e al quale Mimina portava spesso il fagottino col pranzo giù in campagna per non fargli perdere tempo sul lavoro. Tornava tardi, Miche', dai suoi campi. Raramente per vedere «Walker texas ranger», con le piroette da karateka di Chuck Norris, sua vera passione, o Cristiano Imparato, il piccolo mostro (di bravura) di «Io Canto». Più spesso per guardare le previsioni del tempo. Allora il colonnello Giuliacci era una certezza, una delle poche prima di crollare. «Papà provava a seguire la tv, ma alla fine era la tv che seguiva lui, nel sonno», dice Valentina. E ancora le sembra di star lì, a casa, immersa nella quiete serale, col mostro di Avetrana.