Dazi: al Veneto costano 2 miliardi. CGIA Mestre – 2 agosto 2025 – ottimista: il 92% dei nostri prodotti, venduti in USA sono di mediaalta qualità. Rivolti a clienti con redditi elevati, questi ultimi potrebbero continuare ad acquistarli lo stesso, nonosta
In attesa che venga ufficializzata la lista dei prodotti esentati dai dazi, che scatteranno il prossimo 7 agosto, secondo una stima elaborata dall’Ufficio studi della CGIA, l’applicazione dell’aliquota al 15 per cento, decisa domenica scorsa, in Scozia, tra i presidenti Trump e von der Leyen dovrebbe procurare al Veneto un danno, almeno nel breve termine, attorno ai 2 miliardi di euro all’anno. Un costo, quello causato dalle politiche protezionistiche statunitensi, che, secondo la stima della CGIA, racchiude sia gli effetti diretti (mancate esportazioni), sia quelli indiretti (riduzione margine di profitto delle imprese, che continueranno a vendere nel mercato USA, costo delle misure di sostegno al reddito degli addetti italiani, che perderanno il posto di lavoro, trasferimento delle imprese o di una parte delle produzioni verso gli USA, il trade diversion[1], etc.). Oltre a queste due fattispecie è stata tenuta in considerazione anche quella congiunturale (legata alla svalutazione del dollaro nei confronti dell’euro[2]). Fiduciosi sulla tenuta dei nostri prodotti. Sebbene nel 2024 rispetto al 2023 ci sia stata una contrazione delle vendite verso gli USA dei prodotti veneti del 3,8 per cento (in termini monetari pari a -291 milioni di euro), la nostra regione ha una forte vocazione all’export verso gli Stati Uniti (l’anno scorso la dimensione economica è stata pari a 7,3 miliardi). Tuttavia gli effetti dei dazi al 15 per cento, dovranno “misurarsi” anche con i seguenti interrogativi: a) i consumatori e le imprese statunitensi sostituiranno i beni finali e intermedi italiani con quelli autoctoni o di altri Paesi, oppure continueranno ad acquistare prodotti Made in Italy? b) a seguito delle nuove barriere doganali, le nostre imprese esportatrici riusciranno a non aumentare i prezzi di vendita negli USA, rinunciando a parte dei margini di profitto? Sono domande a cui non è per nulla facile dare una risposta. Tuttavia, la Banca d’Italia ricorda che il 43 per cento delle nostre esportazioni verso gli Stati Uniti sono costituite da prodotti di qualità alta e un altro 49 per cento di qualità media[3]: pertanto il 92 per cento delle nostre merci acquistate oltre Oceano sono di alta gamma. Sono prodotti che, verosimilmente, sono destinati ad acquirenti (persone fisiche o imprese) ad elevato reddito, che potrebbero rimanere indifferenti ad un aumento del prezzo causato dall’introduzione di nuove barriere doganali. In merito al secondo interrogativo, invece, i ricercatori di via Nazionale segnalano che il potenziale calo della domanda statunitense, legato all’incremento dei prezzi dei prodotti finali potrebbe essere assorbito dalle nostre imprese attraverso una contrazione dei propri margini di profitto. A tal proposito va segnalato che le aziende italiane, che esportano negli USA, presentano una incidenza delle vendite in questo mercato “solo” del 5,5 per cento del fatturato totale, mentre il margine operativo lordo[4] è mediamente pari al 10 per cento dei ricavi. In altre parole, sono poco esposte verso il mercato statunitense ed una eventuale “chiusura” di questo mercato inciderebbe relativamente. Inoltre, queste realtà produttive hanno mediamente buoni margini per ridurre il prezzo finale dei propri beni da vendere negli States, compensando, almeno in parte, gli aumenti provocati dall’introduzione delle barriere doganali. Ovvio che potrebbero verificarsi delle situazioni molto più gravi di quelle appena descritte, se le politiche protezionistiche di Trump dovessero provocare un’ulteriore svalutazione del dollaro, innescando delle contromisure in grado di provocare una caduta della domanda globale e dei mercati finanziari.
__________________ [1] In un mondo, in cui una grande economia impone dazi quasi a tutti, gli altri esportatori di tutti i paesi colpiti cercheranno nuovi sbocchi, per compensare le perdite subite sul mercato USA. Questo fenomeno è noto come deviazione del commercio (per l’appunto trade diversion). [2] Nei primi sette mesi del 2025 il deprezzamento è stato del 10,5 per cento.[3] Bollettino Economico, Numero 22025 Aprile. [4] E’ il valore della produzione al netto degli acquisti netti di materie prime, dei costi per servizi e godimento di beni terzi e del costo del lavoro, a cui va aggiunta la variazione delle scorte di materie prime. Considerazioni studiate e dettagliate, quelle sopra esposte e evidenziate da CGIA Mestre, ma, come la stessa suggerisce, pareri definitivi, sulla reazione del mercato americano a prezzi, improvvisamente, superiori a quelli sinora in essere, non si possono dare e non resta che attendere i fatti. Questo anche perché un aumento improvviso di un prezzo del “15%” è notoriamente anormale, e, quasi inutile dirlo, rispetto ad aumenti graduali, pur non facilmente sopportabili, assolutamente inaspettato. Valida, e speriamo che si realizzi, è la considerazione di Bankitalia e di CGIA Mestre, per cui molti nostri prodotti, destinati all’export negli Stati Uniti, sono destinati ad acquirenti (persone fisiche o imprese) ad elevato reddito, che potrebbero rimanere indifferenti ad un aumento del prezzo, causato dall’introduzione di nuove barriere doganali. L’economia, con le sue norme non scritte, contempla anche questo.
Pierantonio Braggio